Con la coerenza di chi ha coraggiosamente imboccato la strada che parte dalla consapevolezza, tutta esistenzialista e nello specifico heideggeriana, del fatto che l’uomo, suo malgrado, viene “gettato” in questo mondo, Giancarlo Giuliani, nella fine antologia di versi “Il Nulla e l’Uno” (Edizioni Tabula fati, Chieti 2024), si pone senza dare troppo nell’occhio come un essere vivente inserito “nell’eterno ciclo della materia”[1]. Questa vittoriosa padronanza di una raggiunta maturità rende l’Autore un filosofo privilegiato? No, perché Giuliani sa che la conoscenza non è mai definitiva ma si acquisisce in parte in questo mondo sensibile, dove la vicenda biografica personale può assumere connotazioni dolorose[2], in parte in “[…] un luogo che offra / il languore e l’ebbrezza / di una verità smarrita.”[3]
A questo punto, quale tipo di “Risvegliato” potrebbe essere l’Autore? A mio parere, certamente non un Narciso chiuso nell’autocompiacimento, ma un viandante che “prende per mano il lettore e, nel pieno rispetto della tradizione classica rapsodica ed eleatica, lo conduce lungo un percorso epifanico sovrapponibile al disvelamento di un’autocoscienza.”[4] Mi viene da pensare che si tratta di un viandante misterioso il quale, dalla nigredo esistenziale, si propone di condurre se stesso e il lettore verso una albedo che non è redenzione, non è salvezza, ma uno sciogliersi e rinascere nella trasformazione perpetua garantita da tre elementi: la Materia, la Ragione e il Nulla. Tali elementi sembrano essere riassunti nel simbolo dell’acqua che emette un potente “richiamo”[5]. Forse al Nulla può essere associato il bianco, che è la sintesi di tutti i colori ed è anche il colore di fondo della pagina che l’Autore popola di parole manifestanti un’inquietudine di stampo novecentesco, pregna di una tensione filosofica apparentemente anti – metafisica, a cui l’amore per la Natura, per la figura paterna e per la conoscenza filosofica offre una prospettiva intellettuale nuova.
Numerosi sono i versi in cui rifulge un accorato, raffinato e potente tentativo di padroneggiare l’Infinito, che sembra coincidere non con un Nulla privato della propria capacità di generare nuova vita, come accade in tanta poesia contemporanea, ma con il Nulla che è materia pulsante in grado di offrire all’uomo, misura di tutte le cose, una goccia di eternità negli infiniti mondi possibili.
Proprio il desiderio e la ricerca laica dell’eternità spingono l’Autore ad affermare che inizia una nuova epoca[6], che non è quella scandita cronologicamente dai superbi padroni del mondo, ma quella mentale, propria dell’intellettuale apparentemente svincolato da condizionamenti e in grado di rendere concreto l’ideale della libera ricerca. Un siffatto atteggiamento teorico ed esistenziale genera una Poesia e un Autore che, da una parte sono convinti della capacità della parola di creare conoscenza, dall’altra però sono consapevoli dell’inesprimibilità dell’Infinito e dell’impossibilità di raggiungere una meta definitiva[7].
In conclusione, l’Autore compie nell’opera una mirabile sintesi di luce e tenebra, una resa intellettualmente accattivante dell’importanza della Materia e dell’imperfezione dell’Uno – uomo, un gioco dinamico di parole non scritte e conoscenze ribadite da quel valente scriba dell’Infinito che è Giancarlo Giuliani: sì, alla fine ci si sente davvero compagni di viaggio di questo poeta itinerante che cerca di comunicare, con assertiva e persuasiva modestia, la bellezza della Materia e l’intensità, parzialmente misteriosa, di ciò che sembra sfuggire all’indagine, necessaria e mai definitiva, della Ragione.
[1] Vedi pag. 19, “NEKUYA: LA MADRE”, verso numero 25.
[2] Vedi pag. 19, “NEKUYA: LA MADRE”, vv. 11 – 15.
[3] Vedi pag. 16, “ALLEGRO MODERATO”, vv. 8- 10.
[4] Vedi la Prefazione, pag. 5.
[5] Vedi pag. 16, “ALLEGRO MODERATO”, verso 6.
[6] Vedi pag. 21, “DIE BERGBESTEIGUNG”, vv. 12 – 13.
[7] Vedi pag. 27, “FEMMINILE IL NOME DEL DOLORE”, vv. 12 – 14.